È arduo tracciare una geografia del sacro musulmano, perché essa risulta estesa dai confini del Sahara fino al Mar di Cina, passando per i molti Paesi in cui il credo di Maometto s’è espresso in mille forme, a volte attraverso fratture, battaglie, eventi trasformati in ricordo collettivo e che assumono valore religioso in quanto commemorano un’età inaugurale In Iraq Kerbala e Najaf, capitali degli sciiti; il piccolo santuario di Chellah in Marocco; Touba in Senegal, centro del muridismo... A Shiraz le moschee hanno cupole rivestite all’interno da specchi; si esce senza voltarsi dicendo, in persiano: « Re della luce! »
Il viaggio, il pellegrinaggio nei luoghi e negli spazi sacri accomuna molte religioni, definendo in modo diretto o indiretto la fragilità intrinseca all’essere umano, lo smarrimento di fronte all’eternità e il timore della perdita, dell’oblio. È ciò che avviene nei momenti difficili dell’umanità; ma anche nell’esperienza individuale quando, interrogandosi su se stesso, ogni uomo si misura con la paura della perdita. È allora che si avverte la necessità del viaggio: non come attraversamento della geografia fisica del mondo, non come ricerca della bellezza del divino; ma come misura di sé, quel sé che sente il bisogno dell’ascolto. Anche se abbiamo bisogno della bellezza per entrare in quei luoghi, luoghi in cui storia ed eternità si coniugano, riducendo la minaccia dell’oblio a una parentesi della nostra dimensione individuale e collettiva.
Ma esistono mille forme di itinerario che ci permettono di staccarci dall’oblio, dall’erranza dell’anima, e che possono cambiare radicalmente la nostra esistenza; anche se quel viaggio non si misura con lo spazio, esso ci porta dove l’eternità si è fatta parola, dove si è rivelata sotto una delle sue infinite forme. Quel viaggio i musulmani lo compiono una volta all’anno, nel ventisettesimo giorno del mese sacro di ramadan; in quella notte – che nella novantasettesima sura del Corano è chiamata «laylat al-qadr» (la notte del destino), notte che vale mille notti, secondo la narrazione dell’islam – si commemora la discesa del Libro, il Corano.
È la notte più intensa di quel mese, perché in essa il fedele chiudendo gli occhi nell’angolo di qualunque moschea o luogo sacro, si appresta a compiere quel viaggio, a trasmigrare attraverso la sonorità delle parole del Corano, scardinando spazio e tempo, al momento inaugurale, verso quella luce che si è aperta per i musulmani; perciò essa è chiamata la notte del destino, la notte che vale mille notti, quella che non è misurabile, non è perimetrabile in un tempo né in uno spazio definito. Si tratta del viaggio in un non-luogo, perché è il luogo dei luoghi che abbraccia l’intero mondo esistente, come quella notte che estese la sua eternità per la nuova religione, non lontano dalla Mecca, nella grotta di Hira. Questa dimensione spaziale e meta-temporale ha avuto una traduzione nell’arte islamica, nonostante le riserve aniconiche della dottrina giuridica dell’islam. Sono numerose le miniature musulmane, di matrice ottomana o persiana, che rappresentano l’angelo Gabriele che dona su un vassoio la città santa di Medina al profeta Mohammed. La dimensione spaziale nell’islam tende a risolvere la tensione, insita nell’uomo, fra storia ed eternità. Ma esiste il luogo per eccellenza della sacralità, il percorso quasi obbligato perché sigillato nei pilastri dell’islam: il pellegrinaggio alla Mecca, e dunque anche a Medina. Pellegrinaggio che è sì obbligatorio, ma suscettibile di deroga, perché non tutti – per malattia, difficoltà economiche e molti altri motivi – possono compierlo. Perciò il diritto musulmano concede che un pellegrino possa compiere il pellegrinaggio alla Mecca per un’altra persona. Nell’islam, la Mecca con Medina è il luogo della rivelazione e della formazione della fede, il luogo del compimento della profezia di Mohammed; perciò il pellegrinaggio porta a una sorta di trasfigurazione del fedele che nell’istante in cui compie un rito a Mecca o a Medina rivive la storia e la memoria dei luoghi. La dimensione della sacralità investe totalmente il suo corpo e la sua mente per trasformarlo in una specie di santo: una volta compiuto il pellegrinaggio egli accede a un nuovo status, diventa «hajj». Per la Umma, la comunità dei credenti dell’islam, il pellegrinaggio realizza la tensione fra logica dell’eternità e logica della storia. Giungendo alla Mecca il fedele si toglie tutte le vesti per indossare il lenzuolo bianco (il sudario) come tutti gli altri: quest’atto sembra voler restituire all’uomo l’identità primordiale, la sua fondamentale uguaglianza con gli altri uomini, con i fedeli dell’islam, ma sembra anche riportare l’uomo a se stesso. Il pellegrinaggio alla Mecca e a Medina prevede una complessa serie di riti, di cui molti studiosi hanno descritto le caratteristiche; ad esempio M.
Mahmoudi, un antropologo marocchino che insegna a Princeton, ha pubblicato il resoconto di un suo viaggio-studio alla Mecca, tradotto anche in Italia. Nel pellegrinaggio alla Mecca c’è un rito particolare che ha sempre attirato la mia attenzione, la purificazione attraverso l’acqua del pozzo di Zemzem. Il fedele, prima di partire dai luoghi santi, usa riempire una bottiglia dell’acqua sacra di quella sorgente, perché la tradizione funeraria islamica vuole che l’ultimo lavaggio del defunto si compia se possibile con essa; è uso regalarne una piccola quantità ad amici o parenti che non hanno potuto recarsi in pellegrinaggio: ne basta poca per aiutare il defunto a purificarsi. Per capire la tensione che anima i fedeli in quei luoghi basta osservare che molti pellegrini cercano di recarvisi in età molto avanzata, anche da malati, semplicemente perché è loro desiderio rendere l’ultimo respiro laddove è nata la comunità dei credenti. È difficile tracciare una geografia della sacralità nell’islam, perché essa è estesa quanto l’islam stesso, dai confini del Sahara fino alle rive del Mar della Cina, passando attraverso innumerevoli Paesi, in cui l’islam si è espresso in mille forme, talvolta attraverso conflitti e fratture («fitna»), eventi storici che si sono trasformati in memoria collettiva, e che assumono un valore sacrale in quanto anch’essi commemorano un momento, un’età inaugurale.
Come non ricordare per gli sciiti – grande famiglia dell’islam accanto a quella dei sunniti – il luogo santo che si trova in Irak, Paese che lentamente sembra uscire dal martirio: la pianura di Kerbala, dove in una battaglia sanguinosa morì Hussein, figlio di Alì, cugino del profeta; e, ancora in Irak, non lontano da Kerbala, la città santa di Najaf, che custodisce gran parte della spiritualità sciita, della sua filosofia, delle sue dottrine, e dove per secoli si sono formate generazioni di «mujtahid», gli imam che si fanno interpreti del Corano. Kerbala è il luogo santo per eccellenza dello sciismo, luogo che ogni anno è meta di un lungo pellegrinaggio, e riferimento costante dei riti che si celebrano in tutto il mondo sciita, da Beirut a Isfahan, riti in cui la comunità tende a una specie di trasfigurazione rivivendo quell’esperienza. Esperienza che rappresentò una «fitna» ma che contribuì a definire una nuova dimensione dell’islam, quella dimensione della sacralità dello spazio e della terra, talmente intensa che ogni musulmano sciita quando prega appoggia la fronte su una piastra d’argilla rossa che proviene dalla pianura di Kerbala, dove si compì il dramma della passione di Hussein: quel dramma viene rappresentato nel teatro sacro chiamato «tayzé». E come non ricordare la sacralità dello spazio dell’islam sciita nelle città di Isfahan, di Qom
o di Shiraz, dove in ogni moschea che ricorda un imam la volta interna viene completamente ricoperta da piccoli specchi che riflettono la luce dorata e dove nel silenzio sacrale di quei luoghi i fedeli, nel prendere congedo dal santo, escono senza voltargli le spalle e recitando a voce alta, in persiano, «Re della luce!».
Questa sacralità si ripete in molti altri itinerari, talvolta famosi, altre volte noti a pochi. A me piace ricordare una piccola città santa vicino a Rabat, in Marocco: Chellah, luogo molto intimo, come ripiegato sul mondo, luogo silenzioso ma importante perché la leggenda narra che il pellegrinaggio a Chellah equivale al pellegrinaggio alla Mecca. E non potrei non citare la mia città natale con la sua moschea: Tlemcen, patria di Sidi Boumediene, uno dei più grandi santi e mistici algerini, che stranamente ci conduce Gerusalemme. A Gerusalemme c’è una cosa che pochi conoscono: non lontano dalla cupola d’oro della moschea di Omar, esistono un muro e una porta che portano il nome di Sidi Boumediene, che all’epoca dell’intitolazione era considerato il santo dei santi. Guardando a est della porta, lo sguardo si estende fino alla moschea ottagonale che custodisce probabilmente il luogo del viaggio dei viaggi per i musulmani, il viaggio chiamato 'viaggio celeste' – «mi’raj» – del profeta da Medina a Gerusalemme, considerata la terza città santa dell’islam. Ma esistono molti altri luoghi della sacralità dell’islam, nel sud-est asiatico come nei Balcani, in Turchia, da Istanbul a Konya, nel Maghreb, nell’Africa subsahariana, in Asia centrale; attraverso lo sviluppo e l’estensione delle confraternite mistiche («turuq») molti luoghi sono divenuti città sante, come Touba in Senegal, capitale del muridismo. Un po’ ovunque nel Dar-al-islam, dal Cairo ai confini dell’Afghanistan, l’esperienza del sacro si è espressa in luoghi in cui uomini e santi hanno segnato il loro rapporto con l’eternità.
Il luogo per eccellenza della sacralità, il percorso quasi obbligato perché sigillato nei pilastri del Corano è il pellegrinaggio alla Mecca, che porta a una sorta di trasfigurazione. Nell’istante in cui compie un rito a Medina, il fedele rivive la memoria dei luoghi e un’altra dimensione investe il suo corpo per trasformarlo in una specie di santo: egli accede a un nuovo status, diventa 'hajj'