LE ALTRE ROSARNO
Le «schiave» romene nelle serre di Vittoria
Lavorano 10-12 ore per 15 euro. Spesso violentate dai caporali che poi le fanno abortire



AVVENIRE DEL 20-06-2010 - DAL NOSTRO INVIATO A VITTORIA (RAGUSA)

PAOLO LAMBRUSCHI

L e nuove schiave raccolgono l’oro verde nelle serre della fa­scia trasformata, all’estremo sud della Sicilia. Sono romene, vit­time di una nuova forma di tratta nella piana che corre per decine di chilometri tra Gela e Vittoria. dove su 60mila abitanti 12mila sono stranieri e la proprietà fondiaria frammentata ostacola i controlli. Arrivano dalle aree rurali a nord della Romania, le paghe arrivano a 15 euro per durissime giornate di 10-12 ore passate a raccogliere pepero­ni, pomodori, zuc­chine e melanzane sotto teloni dove la temperatura in questi giorni sfiora i 60 gradi. Prodotti che finiscono nei grandi mercati or­tofrutticoli d’Italia e del Nord Europa.

Lasciano 200 euro al “caporale” e quindi al racket che procura il lavoro. E di notte le più gio­vani, sotto ricatto di licenziamento da­vanti a un rifiuto e per racimolare qualche euro sup­plementare da mandare a casa a famiglie in miseria, devono subire gli a­busi sessuali di al­cuni proprietari terrieri nei dormi­tori ricavati da ca­solari abbandonati nelle campagne di Acate, vicino alle grandi serre dietro il mare, o in com­piacenti locali pub­blici. Sfruttatori che spesso le mettono incinta costringen­dole ad abortire.

Negli ultimi tre me­si al consultorio di zona risulta la cifra record di 45 inter­ruzioni volontarie di gravidanza, tutte compiute da giova­ni romene sole.

Nell’estate dopo Rosarno la situazione in questo im­menso orto siciliano è peggiorata per i braccianti. L’allarme è stato lanciato dalla società civile impe­gnata nell’accoglienza, la Caritas diocesana di Ragusa, la Parrocchia dello Spirito Santo di Vittoria, la lo­cale Camera del Lavoro e dalle au­torità religiose dei migranti. Arduo rompere l’omertà, perché la paura di perdere l’unica fonte di sosten­tamento cuce le bocche. Uno dei pochi testimoni di questa schiavitù invisibile è Eugeni Havresciuc, pa­store romeno della chiesa avventi­sta del Settimo giorno, cui diverse donne hanno chiesto aiuto.

«Ufficialmente i romeni sono mil­le, più probabilmente tremila. Uo­mini e donne, partono in pullman dalle province rurali della Molda­via romena dove vivono in mise­ria. Come europei non hanno li­miti di movimento né problemi di permesso e accettano di lavorare per metà paga. Anche se chiara­mente le cifre in busta risultano di­verse e molti lavorano in nero. Qui vivono dispersi nella campagne, nascosti e in condizioni indegne. Lo sfascio famigliare costringe sempre più donne a partire. In me­dia hanno 22-25 anni. Sono quelle più soggette ad abusi. Sono sposa­te e hanno figli piccoli, ma non hanno scelta».

La dinamica dell’anagrafe agraria di Vittoria è impressionante. Nel 2007 i braccianti romeni erano 60 a fronte di 2mila tunisini. Nel 2008, con l’ingresso della Romania nel­l’Ue passano a 1.800 contro 1.600. Oggi solo ad Acate, frazione dove sono concentrati, i 774 romeni re­sidenti superano anche gli italiani. Intanto la tensione sale a Vittoria, come denuncia un dossier Caritas, dove la comunità tunisina, com­posta da circa 9mila persone, do­po 30 anni si è integrata. Hanno a­perto negozi, alcuni da braccianti sono diventati imprenditori. Ma o­ra sono stati soppiantati dai rome­ni. E, ironia della sorte, dalla con­correnza spietata del loro stesso paese che esporta nella piana or­taggi sottocosto poi marchiati co­me prodotto locale. Il cuore della piccola casbah è piazza Senia. Alle sei del pomeriggio è affollata da maghrebini, quasi tutti disoccupati. La malavi­ta locale sta pescando in questa nuova sacca di povertà per lo spac­cio. Ci sono già state scaramucce con i ro­meni, qualcuno teme scontri.

Hamid Jalabari, rappre­sentante del centro cul­turale islamico confer­ma il disagio. «Mi risulta che alme­no un centinaio di persone siano partite. Non so se rimpatriate o mi­grate altrove. Quando un tunisino si regolarizza, il datore lo lascia a casa e assume un romeno in nero». Il sistema illegale conviene a mol­ti. Lo spiega Beppe Scifo, sindaca­lista della Cgil. «Lo sfruttamento è operato da ex braccianti affranca­ti. Assumendo sottocosto i romeni i proprietari ad esempio eludono l’Inps. Con un contratto che copre 102 giorni, gli altri 102 della sta­gione sono in nero, ma i braccian­ti figurano disoccupati. Così ven­gono paganti poco (un contratto regolare va dai 30 ai 40 euro) ma anche a loro conviene perché pren­dono 102 giorni di disoccupazione dall’Inps. Ovvero 2mila euro, par­te dei quali va al caporale. E la ma­fia locale, la Stidda, impone servi­zi agricoli». C’è una speranza. La Prefettura ha riconosciuto lo sfruttamento delle lavoratrici come nuova forma di tratta. Chi parla ha dunque diritto alla protezione. A fine mese la Re­te nazionale antitratta e la Cgil lan­ceranno una campagna di infor­mazione diffondendo adesivi con il numero verde nazionale anti­tratta. Uno spiraglio nella piana che ha perso la testa per l’oro verde.

Nel 2007 i braccianti romeni erano 60 a fronte di 2mila tunisini. Nel 2008, con l’ingresso della Romania nell’Ue passano a 1.800 contro 1.600. Oggi solo ad Acate, frazione dove sono concentrati, i 774 romeni residenti superano gli italiani