Per liberarsi dal giogo delle dittature il Continente Nero deve entrare nella modernità».
Parla la scrittrice camerunese Miano
L’Africa che non c’è
DI LAURA
SILVIA BATTAGLIA
D ice che «l’essere africana non la rende una specialista di tutte le questioni
relative a questo continente». Eppure, Léonora Miano, classe 1973, parigina
d’adozione, ha rivelato al pubblico europeo cosa voglia dire essere e sentirsi
africani oggi, e vivere nel cuore delle contraddizioni del Continente Nero. Per
questo è già considerata una delle scrittrici più interessanti della sua
generazione.
Il suo romanzo d’esordio, Notte dentro (Epoché, pagine 190, euro 13,50)
è stato giudicato dalla rivista francese Lire la migliore opera prima
del 2005 e ha vinto numerosi premi letterari. L’ultimo riconoscimento in ordine
di tempo è tutto italiano: il Grinzane Cavour 2008 al miglior giovane autore
esordiente, consegnato alla Miano il 16 giugno scorso. Léonora Miano è nata a
Duala, in Camerun. Un Paese che soffre, come molti altri Stati africani, per
non avere governi democratici. «Il regime del Camerun è molto autoritario. Il
minimo moto popolare viene represso con la violenza. Il Paese, in realtà, non
è governato: non c’è un progetto, né la minima capacità di pensare al futuro,
al vertice dello Stato. Per tutti i camerunesi di buona volontà – e sono molti –
la situazione è diffici- le».
L’Africa è un continente oppresso da parecchie dittature, dal Ciad al Sudan,
dal Gabon all’Eritrea, fino al caso più noto dello Zimbabwe. Come traghettare
questi Paesi verso forme di governo democratiche?
«Nessuna dittatura africana raggiunge i livelli della Corea del Nord o
dell’Uzbekistan, Paesi nei quali si ignora quello che stanno vivendo le
popolazioni. Gli africani non hanno l’esclusiva della dittatura. Perfino la
Cina, di cui si parla molto, è ben lungi dall’essere una democrazia.
C’è anche da dire che i Paesi africani, nella loro forma attuale, sono
nazioni molto giovani.
Hanno appena 40 anni. Non ci si può aspettare che dopo 40 anni abbiano già
compiuto il cammino che ha richiesto secoli all’Occidente. Ci vuole tempo
perché emerga una società civile istruita, e una classe media
sufficientemente presente per dare un esito positivo alle battaglie
democratiche in Africa».
È in corso il vertice dell’Unione africana a Sharm el-Sheik. Quale futuro per
l’Africa dall’incontro di questi capi di Stato?
«Nessuno. L’Unione Africana è essenzialmente un sindacato di dittatori che si
fanno piccoli favori reciproci, per garantirsi la conservazione del potere.
Queste persone non lavorano per il continente, ma per il proprio benessere. I
capi di Stato dei Paesi francofoni, in particolare, sono persone che hanno
vissuto la colonizzazione e che non erano favorevoli all’indipendenza del loro
Paese. Non ci si può aspettare niente da loro. Ma dobbiamo sbarazzarcene ».
La violenza in Africa. A farne le spese sono soprattutto le donne, giovani e
meno giovani. E i bambini imparano spesso fin da piccoli a esercitarla sui loro
simili e continuano a farlo da adulti...
«In tutte le società violente i primi bersagli sono i più deboli. E in tutte
le società, che si tratti, per esempio, del Brasile o della Colombia, dove si
trovano dei sicari di 12 anni, è soprattutto la povertà che fa prosperare la
violenza. È facile spingere al crimine chi si trova in condizioni di estrema
miseria. L’umanità è la stessa ovunque e gli africani non sono culturalmente più
violenti degli americani che tengono molto al diritto di possedere delle armi
e che insegnano a usarle ai propri figli.
Credo che nessuno abbia delle lezioni di virtù da darci. Quello che manca al
nostro Paese sono i baluardi che le società europee hanno eretto lungo i
secoli».
C’è un’Africa di cui si parla poco ed è quella delle persone di buona
volontà che vogliono dare l’Africa agli africani affinché cresca davvero e non
perché venga barattata in cambio di armi e di potere. Da quali persone è fatta
questa Africa?
«Sfortunatamente quest’Africa è composta da persone comuni che lottano nel
quotidiano. Una delle crisi maggiori nel continente africano è quella che
riguarda la leadership, che non porta avanti gli sforzi delle popolazioni».
Nel suo romanzo d’esordio, «Notte dentro», lei parla della forza e della
debolezza di essere e di sentirsi africani. Come un africano può rendere
giustizia alla propria terra anche se vive lontano da lì?
«Nei miei romanzi non si scappa dall’Africa. La si lascia, come fa il
personaggio di Ayané che va a studiare in Europa, ma si torna a lei.
Essere africani, sul continente, significa ragionare in funzione di un
paradigma africano conciliabile con la modernità. Il dovere della diaspora,
invece, è partecipare, con tutti i mezzi a disposizione, alla ricostruzione di
una stima di sé che negli africani è deteriorata.
Finché non verrà ripristinata l’essenza più profonda degli africani, tutto
quello che potranno fare in ambito politico o economico resterà senza effetto».