H anno potuto portare in Italia solo la loro vo­glia di lavorare. Non la moglie, i genitori, i figli: quelli, quasi sempre, li hanno dovuti lasciare a casa. E allora, di quel (poco) che guada­gnano qui, i nostri immigrati tengono per sé un po’ di più della metà. Il resto lo spediscono alle lo­ro famiglie e, in quella manciata di centinaia di eu­ro che permette ai loro cari di andare avanti, gli stranieri d’Italia trovano il senso del loro stare qui. Si definiscono «rimesse» i soldi spediti dagli im­migrati verso i loro Paesi d’origine. Tutte insieme, le rimesse inviate dall’Italia nel 2006 ammontano a ben quattro miliardi e mezzo di euro. Una cifra che aumenta vertiginosamente anno dopo anno: è triplicata negli ultimi tre anni, è quasi sei volte il totale del 2002 e poco meno di venti quello del 1997.
  E, davanti a questo flusso di denaro, impallidisco­no gli stanziamenti italiani per la cooperazione in­ternazionale. I fondi per aiutare i Paesi in via di svi­luppo, nel 2006, ammontavano ufficialmente a 2,9 miliardi (compresi però gli 1,3 miliardi di credito che l’Italia vantava nei confronti di Paesi come I­raq e Nigeria e ai quali ha scelto di rinunciare).
  Se l’Italia, che si è impegnata a investire in aiuti lo 0,5% del proprio Pil entro il 2010, rispetto allo 0,2% attuale, a dare una mano al Sud del Mondo ci pen­sano allora i suoi immigrati. Per loro, «mezzo sti­pendio torna a casa», come emerge dall’indagine presentata ieri a Milano dalla Fondazione Cariplo e dalla Fondazione Giordano dell’Amore.
  Dall’analisi emerge che buona parte del reddito degli immigrati percorre, a ritroso, la strada per­corsa da loro. Gli stranieri che hanno trovato un po­sto di lavoro minimamente stabile spediscono in­dietro il 47% del proprio reddito. Guadagnano in media 986 euro al mese: a conti fatti tengono per sé una cifra che, a malapena, gli basta per vivere. Ci sono numeri che parlano da soli. Come quel 3% inviato a casa dagli immigrati che studiano qui la­vorando per mantenersi, con stipendi medi da 680 euro. O come il dato sulle finalità della spedizio­ne: è il «consumo», quello per le immediate ne- cessità, nel 77% dei casi. Per le «emergenze» va un altro 8%, per l’educazione il 3%. Anche se non man­ca, soprattutto tra gli immigrati dell’Est Europa, chi li spedisce a casa per investire (10%).
  Buona parte di questo denaro, il 60%, passa per le agenzie specializzate in money transfer, un altro 8% passa invece per le Poste, che sono conven­zionate con un’agenzia di trasferimenti. Ma, una volta su quattro, i soldi tornano nei Paesi d’origi­ne attraverso i cosiddetti «canali informali». Può trattarsi di un amico che torna a casa (14%), di un pullman o un furgone che fa quella rotta (5%), o di un corriere (2,4%). Le banche partecipano a que­sto mercato con una quota limitata al 6%, e pro­prio di questa questione si sono interessati i cura­tori dell’indagine, ritenendo che una collabora­zione tra le agenzie di money transfer e gli istituti di credito possa nascere un connubio ricco di op­portunità, sia per loro che per gli immigrati e per i Paesi in via di sviluppo.
  Perché oggi le rimesse contribuiscono solo in par­te a risolvere i problemi delle nazioni più povere. Aiutano le famiglie destinatarie a superare le dif­ficoltà quotidiane, ma non incidono in modo strut­turale sull’economia del Paese. Anzi, spesso, la pioggia di soldi che arriva dall’estero le danneggia, provocando un aumento dell’inflazione che pe­nalizza chi non ha famigliari all’estero. La solu­zione potrebbe essere allora, sostiene l’indagine, veicolare meglio questo denaro, attraverso istitu­ti di microfinanza che sostengano l’economia dei Paesi destinatari. Sarebbe un modo di trasforma­re le rimesse da aiuto contingente alle famiglie de­gli immigrati in fattore decisivo per la crescita del Sud del mondo.


«Soldi necessari per casa e scuola, ma attenti agli eccessi»

 « G li immigrati che man­dano soldi in patria so­no in media anche i più integrati nel nostro Paese». Per Maurizio Ambrosini, docente di so­ciologia dei processi migratori al­l’Università degli studi di Milano e direttore della rivista «Mondi mi­granti », il fenomeno delle rimesse alimentato dagli stranieri è sempre più rilevante, nei bilanci degli Sta­ti come in quelli delle famiglie.
  «Per un padre che arriva dal Suda­merica o dall’Asia, poter provvede­re economicamente ai bisogni dei figli rimasti in patria è una vera e propria legittimazione come geni­tore. Tanti papà si vergognano a chiamare i propri ragazzi, se prima non sono riusciti col loro lavoro a trasferire direttamente dei finan­ziamenti nei posti in cui sono na­ti ».
 Che fine fanno poi questi soldi?

 La tipica destinazione è la costru­zione di una casa oppure, a secon­da dell’età, il sostentamento dei fi­gli nelle cure sanitarie e l’iscrizio­ne a scuola. Per le mamme che vi­vono in Italia, l’invio di denaro è un vero e proprio atto di affetto e di at­tenzione, quasi un modo di pren­dersi cura dei più piccoli an­che a distanza. Ci sono an­che aspetti critici non privi di conseguenze.
 Quali?

 Secondo alcuni osservatori, si finisce per creare con le rimesse un popolo di nuovi consumatori nei Paesi d’origine. Il problema è che i consumi in que­stione riguardano prodotti spesso superflui e ridondanti. Alla fine si formano degli «arricchiti» in patria che poi, quando decidono di rag­giungere i propri parenti in Italia all’età di 15 anni, rischiano di pas­sare da una situazione di privile­giati a uno status di figli da classe popolare italiana.
 Che conseguenze ha tutto questo sui giovani stranieri?
 
La prima conseguenza si verifica nel Paese d’origine. I giornali di Paesi come le Filippine o il Perù so­no ormai pieni di notizie legate al disagio sociale dei figli adolescen­ti delle cosiddette famiglie tran­snazionali. Fatti di cronaca che rac­contano di soldi spesi nel consumo di alcol o di droga. Bisogna perciò evitare che il fenomeno positivo delle rimesse si porti dietro nuove emergenze educative, legate all’in­capacità dei quattordicenni stra­nieri di gestire con maturità somme spesso rilevanti.
 Lei parla delle rimesse co­me di un fenomeno positi­vo. Si riferisce al boom de­gli ultimi anni?

 Non solo. C’è l’aspetto fon­damentale legato all’anda­mento di questo fenomeno, che or­mai supera gli aiuti alla coopera­zione internazionale, a testimo­nianza del fatto che un costume na­to da decisioni di singoli lavorato­ri stranieri oggi, a livello aggregato, rappresenta un patrimonio estre­mamente rilevante. Ma c’è anche dell’altro: nei bilanci di alcuni Pae­si del Centro America le rimesse so­no tra le prime voci in attivo, di so­lito precedute da introiti finanzia­ri legati al petrolio o a prodotti ti­pici di determinate zone. Ciò per­mette a molti governi di negoziare direttamente con istituzioni come il Fondo monetario o la Banca mondiale i piani di riequilibrio dei conti pubblici, a partire proprio dalle risorse spedite in patria dai connazionali residenti all’estero.
 Il sociologo Ambrosini: sono i padri che mandano fondi ai figli per legittimarsi come genitori. In alcuni casi nascono però consumi inutili ed emergenze educative
 DA MILANO DIEGO MOTTA