Bertinotti: con i migranti per fare il nuovo ’68

10/04/2008

ANTONIO PASTORE Non ha deluso il popolo della Sinistra il leader delle mille battaglie, e nel Comunale pieno come un uovo - tutti i posti occupati, sopra e sotto, tanta gente in piedi e persino costretta a rimanere fuori - ieri pomeriggio ha parlato al cuore prima che alla testa dei militanti e degli elettori della sua lista. «Senza emozioni e passione, la politica - ha chiosato il presidente della Camera ad un certo punto del suo intervento - è ridotta a programmi e obiettivi, sono contento di vedere qui invece una partecipazione così forte». Inframmezzando analisi ragionate e attacchi a bruciapelo, toni amari e il sorriso dell’entusiasmo, Bertinotti ha toccato tutte le corde della platea pressata verso l’ultimo sforzo prima del voto. Ce n’è per Dell’Utri («Non potendo cambiare la storia vuole cambiare i libri di storia») e per Fini che si vuole liberare della Sinistra («La liberazione in Italia c’è già stata»); per Veltroni che punta su un progetto neocentrista («È un mestiere che sanno fare meglio gli altri») e per Berlusconi che attacca il capo dello Stato. La tappa casertana del candidato premier è stata segnata - dopo l’omaggio ai caduti per il lavoro nel posto in cui, a corso Trieste, è morto pochi giorni fa un operaio edile - dalla vistosa presenza di centinaia di migranti, veri protagonisti della prima parte della manifestazione. Due rappresentanti delle comunità del litorale domizio hanno preso la parola prima di Bertinotti (introdotto dal segretario provinciale di Sd Giuseppe Di Gregorio) per ricordare la drammatica situazione dei «senza permesso» e di un territorio degradato dallo spaccio e da una tossicodipendenza dilagante. Chiedono l’attivazione delle procedure per l’asilo politico, l’istituzione di un Sert in zona, il superamento definitivo della Bossi-Fini. E Bertinotti li ha salutati «come segno di buon auspicio», sposando le loro proposte e indicando la battaglia per la loro integrazione come simbolo di quella «unità» necessaria a sbloccare il Paese. «Ho l’età per ricordare che nella città del nord dove facevo il sindacalista - racconta - una volta c’erano cartelli in cui si diceva ”Non si fittano case ai meridionali”». Nella Torino operaia allora c’erano i lavoratori professionalizzati, che parlavano solo torinese, e i meridionali alla catena di montaggio. «Sembrava impossibile che potessero incontrarsi e invece - incalza Bertinotti - è successo, e da quell’incontro è nata la grande rivoluzione degli anni Settanta». Una saldatura che adesso si potrebbe riproporre tra «nativi» e «migranti», con lo stesso impatto sconvolgente. Perché di una scossa l’Italia ha davvero bisogno se vuole uscire da quel tunnel contro cui il governo Prodi poco o nulla ha potuto. E della breve esperienza nell’esecutivo ha spiegato i motivi anzitutto per confutare la tesi di chi evidentemente, nell’area più rossa, è convinto sia stato un errore quella partecipazione. «Noi ci siamo battutti sempre dalla stessa parte», scandisce il presidente della Camera. Ricordando che si usciva, due anni fa, dal quinquennio delle destre che aveva massacrato i ceti più deboli, esteso il precariato e abbassato il potere d’acquisto dei avoratori. E che poi con Prodi - caduto per Mastella e Dini e non per il presunto «massimalismo» della Sinistra che ha doovuto ingoiare bocconi amari - qualche cosa di buono è stato fatto. Troppo poco però, e sopratutto privando il governo di quel consenso popolare che forse avrebbe tarpato le ali ai protagonisti della crisi.