Il codice condiviso della dignità
umana
Compie 60 anni la Dichiarazione universale dei diritti La dignità inviolabile
della persona come bussola
Dopo la tragica esperienza dei totalitarismi e del conflitto mondiale, la spinta
decisiva verso la riformulazione del diritto internazionale. Una crisi di
civiltà che fra il ’40 e il ’45 avvicinò cattolici e protestanti, ma anche
liberali e socialdemocratici
D ue anni di lavoro per scrivere i
trenta articoli e il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani:
un’esigenza espressa sin dalla prima sessione delle Nazioni Unite e sancita il
10 dicembre del 1948. Un lavoro appassionante, un codice della dignità umana
come incastonato fra le macerie della seconda guerra mondiale e nuove tensioni
del mondo bipolare di Yalta. Fu la sfida di voler scrivere i principi di una
nuova convivenza fondata sulla pace, sulla giustizia e sul rispetto dalla
libertà e della vita a guidare l’idealismo di Eleanor Roosevelt, la vedova di
Franklin Delano, presidente e indiscussa leader del Comitato di stesura
composto da 18 membri fra cui il francese René Cassin, il libanese Charles
Malik, il cinese Peng Chung Chang.
La risoluzione 217 dell’Onu venne così approvata a Parigi dai 51 Stati allora
presenti nel 1948: quel voto è la fonte di nove trattati fondamentali sui
diritti umani riconosciuti ¿ se non in toto, almeno singolarmente ¿ da quasi
tutti i 192 Stati membri delle Nazioni Unite. Ma la necessità di scrivere un
codice della convivenza universale, forse si può azzardare a dire una
Costituzione del mondo, in realtà ha attraversato per secoli il pensiero
occidentale e non solo quello per concretizzarsi almeno in parte nel
travagliato secolo breve: il sogno wilsoniano del primo dopoguerra di una
Società delle Nazioni e poi la faticosa e ancora incompiuta realizzazione
delle Nazioni Unite. Una dichiarazione dei diritti, quella del 1948, che
rappresenta l’ultima magna charta e per questo la più universale delle
affermazioni dei diritti che tradizionalmente costituiscono l’apertura delle
costituzioni moderne: nel 1689 la Dichiarazione dei diritti dopo le guerre
civili inglesi contiene una prima chiara aspirazione democratica; un secolo
dopo è la Rivoluzione francese ad aver ispirato la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino e la contemporanea Costituzione degli Stati Uniti
d’America. Conquiste giuridiche della modernità, anche se alcuni vogliono
ricordare anche il Cilindro di Ciro (emanato da Ciro il Grande di Persia nel
539 a.C.) come primo documento sui diritti umani e il Patto dei virtuosi,
stipulato da tribù arabe intorno al 590 d.C. come prima alleanza fra popoli
basata sul rispetto di principi comuni.
Una lunga e complessa genealogia dei diritti umani che come scriveva Jacques
Maritain nel 1942 è «un’eredità del pensiero cristiano e del pensiero
classico» e non solo della filosofia illuministica che, afferma il filosofo
neotomista francese, «finì per distorcerla ». Un fil rouge
legato al cristianesimo che passa attraverso la lotta per i diritti degli
indios dell’America Latina di Fra Bartolomeo de Las Casas e Francisco de
Vitoria (secolo XVI) e può risalire fino Tommaso d’Aquino, a Sant’Agostino, ai
padri della Chiesa, San Paolo e ancora fino a Cicerone, gli stoici e Sofocle.
Ma è soprattutto di fronte alla tragedia dei totalitarismi e del conflitto
mondiale che la riflessione trova una spinta decisiva alla riformulazione del
diritto internazionale. Una crisi di civiltà che fra il ’40 e il ’45 avvicinò
cattolici e protestanti, ma anche liberali e socialdemocratici in un dialogo
con altre correnti religiose, fino a superare tradizionali contrapposizioni.
La guerra, il nazismo e il comunismo affrettarono pure il superamento delle
diffidenze verso l’illuminismo ateo che aveva messo mano a tutte le
dichiarazioni dei dirit- ti europee, ma non a quelle americane in cui rimaneva
chiaro il riferimento a Dio come fondamento. Per questo, come sintesi di quella
rinata attenzione e attualità, il radiomessaggio di Natale di Pio XII nel 1942
invocava la «stella della pace» per «ridonare alla persona umana la dignità
concessale da Dio fin dal principio».
Una necessità improrogabile, dettata dagli orrori della guerra, e che fece
subito inscrivere i diritti dell’uomo e la pace fra i sei articoli della Carta
delle Nazioni Unite. Da lì, dopo secoli di attesa, partiva il lavoro del
Comitato di stesura: era come se, fra quelle bozze e diverse stesure che la
signora Roosevelt passava di mano agli altri delegati, i principi della
rivoluzione francese e americana raggiungessero finalmente la dimensione
dell’universalità.
Un avvio decisivo ma su un sentiero che si è complicato negli anni e
confrontato con nuovi scenari. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica sono
stati il Concilio Vaticano II ed encicliche come
Pacem in Terris oltre al magistero e ai viaggi apostolici di Giovanni Paolo II a
definire sempre più come dimensione essenziale della missione della Chiesa la
« salvaguardia della dignità trascendente della persona umana » ( Gaudium et
Spes). E recentemente Benedetto XVI ne ha parlato all’assemblea generale
dell’Onu (vedere box).
Ma la velocità e la complessità delle trasformazioni hanno quasi ribaltato
l’orizzonte in cui collocare i diritti umani. Il crollo del socialismo reale ha
dato per alcuni anni l’illusione della fine della storia: cioè che
l’universalizzazione delle democrazie liberali e la legittimazione su scala
mondiale dell’economia di mercato avrebbe portato pace e benessere per tutti.
Un’illusione svanita simbolicamente l’ 11 settembre 2001 con l’apparire fulmineo
e talora tragico di inediti scenari geopolitici: dal terrorismo internazionale
a una globalizzazione economica con nuovi vincitori e nuove vittime mentre si
affacciano crisi finanziarie e allarmi ecologici.
Un rivolgimento in cui si è tutti immersi mentre è affiorata una nuova
percezione della popolazione umana stessa. Il Novecento è stato pure il secolo
della decolonizzazione che ha dato cittadinanza, anche nelle relazioni
internazionali, a nuovi diritti emancipati dall’influenza occidentale. Un
universo che si può simbolicamente riassumere in questi numeri: 6.700 lingue e
7.500 etnie censite fra i 192 Stati delle Nazioni Unite. Il diritto delle
minoranze e dei popoli autoctoni particolarismi, identità nazionali ed etniche
sono infatti una conquista recente rercepita solo a partire dal 1992
dall’Assemblea delle Nazioni Unite.
Superata la concezione indubbiamente eurocentrista del 1948, oggi vi è una
diversità di cultura da inquadrare. «Si impone una riscrittura», sostiene in un
recente saggio il politologo francese Joseph Yacoub, in cui «universalismo e
particolarismo non dovranno più essere degli orientamenti antagonisti, che si
escludono l’un l’altro». Un’opera collettiva dell’ingegno umano, un mosaico
per la pace che affonda le sue radici nella insopprimibile dignità di ogni
uomo.