Ruanda, l’esempio degli orti comunitari

DI PAOLO M. ALFIERI
 C’ è chi ha capito che non bastano gli aiuti a piog­gia e le distribuzioni di pasti pre-confezionati ad alleviare l’emergenza fame nel Sud del mon­do. C’è che si è reso conto che non si può solo tamponare un’emer­genza per ritrovarsela poi, magari più dolorosa ed estesa, l’anno suc­cessivo. Il Sud del mondo, l’Africa in particolare, ha bisogno di rendersi autonomo, di imparare tecniche di coltivazione semplici ma efficaci, di distinguere e variare a seconda del­le possibilità una dieta che possa garantire il massimo delle capacità nutritive con il minimo impatto sul­le scarse risorse disponibili.
  Da questo punto di vista l’esperi- mento degli «orti comunitari av­viati » in Ruanda dalla ong italiana Avsi è una storia di successo che può insegnare molto in una situa­zione di crisi come quella delle ul­time settimane. Qui, nel Centro nu­trizionale di Humu­re, distretto di Gat­sibo, le mamme hanno imparato che c’è una possibi­lità in più per sé e per i propri bambi­ni. È qui che si ap­prende, a gruppi di venti donne per volta, a coltivare la terra con i mezzi più appropriati, a variare l’alimentazione con pomo­dori, melanzane, zucchine, verze e broccoli, per esempio, da affianca­re alla tradizionale manioca con i fagioli. Ma, soprattutto, ad Humu­re si impara a far gruppo, a portare nel proprio villaggio un’esperienza che può essere replicata e soddi­sfare, così, i bisogni nutrizionali di intere comunità. Le donne che ar­rivano qui scendo­no dalle mille verdi colline del Paese con i loro bambini spesso con gravi problemi di denu­trizione. «Mentre i piccoli vengono se­guiti nel Centro di sanità – spiega ad Avvenire Riccar­do Bevilacqua di Avsi – le loro mam­me, per due volte alla settimana, se­guono le 'lezioni' di un agronomo nell’orto comunitario. Alla fine del corso non solo si dividono il rac­colto ottenuto, ma ricevono anche un kit di strumenti e di semi per poter re­plicare a casa quan­to appreso. Ogni anno sono circa duecento le donne che riusciamo a seguire». L’effetto più interessante di questo nuovo approccio (replicato anche per quanto riguarda l’allevamento e adottato anche dalle autorità locali come vera e propria politica gover­nativa) è l’indipendenza che le stes­se mamme riescono col tempo a conseguire. «Basti pensare – osser­va ancora Bevilacqua – che dal 2000 ad oggi sono nate almeno sei asso­ciazioni locali, ognuna formata da circa 100-130 membri, che riescono ad autogestirsi completamente».
  Si coltiva insieme, si mangia quan­to raccolto senza necessità di sotto­stare ai capricci del mercato, e si rie­sce magari anche a rivendere local­mente quanto non serve per l’au­tosussistenza. «È un grande risulta­to – ammette ancora Bevilacqua – che deriva proprio da un cambio di mentalità delle mamme stesse. Che non ricevono più un aiuto in ma­niera passiva, ma sono, finalmente, artefici del proprio destino».
 La struttura di Avsi ad Humure riferimento per l’autonomia nutrizionale