La Resistenza dell’eroe ignoto
DA ROMA GIOVANNI GRASSO
« Q uando leggo che qualcuno propone di mettere mano ai libri di storia per
ridimensionare il peso dalla Resistenza, a 91 anni, vengo ancora preso da
amarezza e preoccupazione per il futuro di questo Paese: la storia, per quanto
nessun ricercatore può essere completamente scevro da passioni, si fa sui dati
oggettivi e si fa per capire, non per emettere sentenze aprioristiche». Gabriele
De Rosa, presidente onorario dell’Istituto Sturzo e caposcuola della
storiografia italiana, ritiene, al contrario, che «molte pagine della guerra di
Liberazione vadano ancora scritte».
Insomma, più che ridimensionare, bisognerebbe approfondire, studiare, allargare
gli orizzonti...
«Certamente. La storiografia sulla Resistenza, all’inizio, si è limitata alle
formazioni partigiane. Poi, pian piano, si è cominciato a mettere in luce il
prezioso contributo dei soldati italiani: quelli che resistettero con le armi,
come a Cefalonia, o che si unirono alle truppe alleate o ancora quelli che si
rifiutarono di arruolarsi nell’esercito di Salò e furono deportati nei lager in
Germania, esposti a sofferenze morali e fisiche indicibili. Nel 1995 un
convegno all’Istituto Sturzo, a conclusione di tre anni di ricerche negli
archivi diocesani e parrocchiali, fece il punto sulla vasta e diffusa
collaborazione del clero alla lotta antinazista. Ultimamente, alcuni studi
stanno facendo venire alla superficie molti episodi di eroismo civile
nell’Italia meridionale, sfatando, almeno in parte, lo stereotipo di un Nord
partigiano e di un Sud remissivo e attendista. Credo che ancora rimanga da
scrivere il capitolo forse più consistente della Resistenza: quello della
sofferenza, del sacrificio, del coraggio della popolazione civile in quel
tragico periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Ma è ormai
chiaro che, con tutte le sue sfaccettature e anche contraddizioni, la Resistenza
al nazismo fu in Italia un movimento di popolo, una storia corale, non
paragonabile neanche a quello che accadde durante il Risorgimento, che fu un
fenomeno piuttosto elitario».
Dunque qualcosa che va molto al
di là del movimento partigiano...
«Già Federico Chabod ci ammoniva a non considerare la Resistenza come un
fenomeno limitato alle organizzazioni armate. Chi nascondeva o nutriva un
soldato italiano o alleato, un ebreo, un partigiano rischiava il plotone
d’esecuzione. E credo non ci sia famiglia in Italia che non abbia nella cerchia
delle sue parentele o amicizie qualcuno che lo abbia fatto. Il mio amico Paolo
Emilio Taviani, partigiano cattolico e protagonista della liberazione di
Genova, mi ripeteva sempre che senza l’appoggio morale e materiale della
popolazione civile i partigiani avrebbero potuto fare ben poco».
Sembra una lettura molto meno politicizzata di quella che pure certa
storiografia più antica (in chiave celebrativa) e certa più recente (in chiave
denigratoria) hanno fin qui avvalorato...
«Le racconto un episodio personale. Io ero ufficiale dei granatieri, in
convalescenza a Roma dopo aver combattuto a El Alamein. Abitavo presso una
affittacamere, nel quartiere Tiburtino. Subito dopo l’8 settembre venne a
cercarmi a casa il responsabile di zona della polizia fascista accompagnato da
un ufficiale delle Ss. La padrona di casa, una ex contadina calabrese,
davanti a questi figuri armati e minacciosi, ebbe la forza d’animo di mentire
spudoratamente: 'Il tenente De Rosa? È napoletano, se n’è fuggito a Napoli,
come gli altri'. Quella piccola donna mi aveva salvato la vita, mettendo in
pericolo la sua. Perché lo fece? Per ubbidire a qualche ordine di partito? Per
coerenza con qualche ideologia più o meno rivoluzionaria? Credo che la
Resistenza, prima di essere un fenomeno politico, sia stato un movimento
morale, umano, cristiano, di riscatto e di rivolta dopo vent’anni di
oppressione e di fronte alla crudeltà e ferocia disumana dei nazifascisti».
Lei, come molti altri giovani, era iscritto al Guf, poi partì volontario per El
Alamein, infine si ritrovò a fare la Resistenza. Può raccontarci questa sua
parabola mentale, questo processo di conversione radicale che avvenne in
quegli anni?
«Eravamo stati educati tutti, a scuola e fuori, all’obbedienza al fascismo,
che aveva fatto tante cose buone per l’Italia e per la Chiesa, aveva restaurato
l’ordine, aveva riscattato la nazione a livello mondiale, che era esaltato
dalla stampa internazionale per i suoi successi.
L’entrata in guerra cominciò a farci aprire gli occhi sul fallimento morale
oltre che politico del regime e del suo grigio conformismo.Tra i miei compagni,
alla scuola allievi ufficiali, c’era davvero di tutto: cattolici, crociani,
marxisti, socialisti. Non ci sentivamo ancora formalmente di antifascisti, ma lo
stavamo diventando, direi, quasi naturalmente.
Partimmo per l’Africa con l’intenzione di compiere il nostro dovere a qualunque
costo. Combattemmo, con pochi mezzi contro forze preponderanti, per la patria,
per la bandiera, per il giuramento di fedeltà alla monarchia. La caduta di
Mussolini non mi colse di sorpresa, era nei fatti. E l’8 settembre capii che lo
stesso imperativo morale che mi aveva spinto a combattere in Africa mi
ingiungeva di riprendere le armi contro l’oppressione nazista».
Con quali motivazioni lei scelse la lotta clandestina?
«Eravamo di fronte non a una guerra d’indipendenza per cacciare l’invasore
straniero dal suolo patrio, ma a una di lotta tra il bene e il male, tra un
umanesimo cristiano e la barbarie hitleriana, tra una civiltà basata sulla
libertà e il diritto e una ideologia fondata sull’odio, il razzismo e la
sopraffazione. In questo ci sentivamo idealmente affratellati alle truppe
anglo-americane, alla resistenza francese, a ogni uomo che combatteva in Europa
per la libertà. Quando oggi sento parlare di 'morte della patria', posso
assicurare che per me e molti altri miei amici fu quello stesso amore per
l’Italia che ci portò a El Alamein a farci prendere le armi contro i
nazifascisti. Per me e per molti altri fu una scelta innanzitutto morale,
civile, religiosa, persino letteraria e infine politica, ma senza inseguire o
vagheggiare modelli che non fossero scaturiti direttamente da quello che
avevamo visto e sentito in quei terribili mesi».
«È ormai chiaro che la lotta al nazismo fu in Italia moto di popolo e storia
corale, non paragonabile al Risorgimento elitario» «Non solo partigiani.
La liberazione, prima che fenomeno politico, fu un movimento morale, umano e
cristiano di riscatto»