LILIAN THURAM
«Pallone e razzismo: Io non mi arrendo»
Finchè nel pianeta football ci sarà almeno un Lilian Thuram,
allora si potrà ancora credere in un calcio e in un mondo migliore. A 38 anni,
appena lasciato il campo ha creato una sua Fondazione, “Educazione contro il
razzismo”, per marcare rigorosamente a uomo le coscienze degli uomini, specie
quelli che hanno problemi con gli «altri» e che non riescono proprio ad
accettare chi è diverso da loro. Insomma, quelli che comunemente indichiamo come
“razzisti”, non sono diventati i suoi nemici, ma uomini ai quali Thuram tende la
mano e soprattutto intende parlare. E ora, per spiegarsi ancora meglio, li
invita alla lettura del suo libro, Mes étoiles noires, “Le mie stelle nere”.
Un libro in cui lei racconta i “neri” che hanno fatto la storia e che comincia
con Lucy, per arrivare a Barack Obama...
«Comincio da Lucy, dalla creatura “preumana” per spiegare che proveniamo dalla
stessa famiglia. Che nella storia è esistita una civiltà egiziana in cui i
sovrani erano neri, così come Jean de La Fontaine per le sue favole si ispirava
a quelle di Esopo che era anche lui di colore. Due esempi dei 45 ritratti che
riporto nel mio libro per dire che siamo partiti tutti dall’Africa e poi ci
siamo semplicemente sparsi per il mondo, ma la radice dell’uomo è unica».
Una verità inconfutabile, ma che sembra non entrare ancora nella testa di
milioni di persone.
«La variabile in ogni cultura, è data dalla nostra capacità d’immaginare gli
altri. Obama è un uomo che ha cambiato l’immaginazione del mondo che ora sa che
avere un Presidente americano di colore è possibile. Ma questo ancora non
basta... Per fare arrivare certi messaggi, bisogna educare le persone, lavorare
sulla loro immaginazione, perché è da lì che nasce il razzismo. Io non mi stanco
mai di ripetere che non si nasce razzisti, ma si diventa, proprio per una
carenza d’immaginazione, accettando il luogo comune che vuole l’umanità divisa
per razze».
Lei ha detto che il razzismo degli stadi italiani è lo specchio di un Paese
razzista.
«Meglio chiarire. Il razzismo è ovunque e non c’è un Paese più razzista
dell’altro. Quelli più a rischio, sono i Paesi in cui diminuisce la capacità di
immaginare e di conseguenza aumenta il pregiudizio nei confronti di chi è
diverso per il colore della pelle, per il suo credo religioso, per chi è
straniero e povero. I poveri fanno sempre paura, ma spesso non ci si domanda:
perché qualcuno ha lasciato la propria terra lontana per venire a lavorare qui
in Occidente? Alla maggior parte delle persone viene spontaneo immaginare che
quel povero e straniero è arrivato a “invadere” il nostro spazio e a portare un
cambiamento nelle nostre vite. Ecco, il cambiamento, anche il più piccolo, fa
sempre terribilmente paura».
Questi discorsi va a farli anche nelle scuole, ma come reagiscono i ragazzi?
«Quando vado nelle classi di bambini, loro mi dicono che riconoscono quattro
tipi di razze: nera, gialla, bianca e rossa. Dei neri sanno che sono i più
veloci, più forti fisicamente e cantano meglio di tutti. I gialli sono forti in
matematica e campioni di ping-pong. Ai bianchi riesce bene un po’ tutto quello
che sanno fare le altre due razze, mentre dei rossi non sanno niente, anche
perché in Francia non si vedono più film alla tv sugli indiani d’America. Ma
qualcuno, ha detto loro che quelli sono i rossi... Noi dobbiamo cambiare questa
prospettiva della divisione, dobbiamo educare le persone fin da piccoli, anche
perché i bambini sanno stare insieme senza provare paura per le loro differenze.
E poi i bimbi vedono cose che noi ignoriamo…».
Cosa vedono gli occhi dei bambini?
«A mio figlio Chefren un giorno quando vivevamo a Torino e io giocavo nella
Juventus, ho detto: “Tu sei l’unico nero nella tua classe, gli altri sono tutti
bianchi”. E lui mi rispose: “No papà, io sono marrone e i miei compagni hanno la
pelle rosa”. L’immaginazione dei bambini vede la realtà com’è e sa dargli i
giusti colori, cosa che molti adulti purtroppo non hanno mai imparato a fare».
Quegli adulti che frequentano le Curve dei nostri stadi urlano “buu-buu” ai
giocatori di colore e cantano a Mario Balotelli che “non esiste un nero
italiano”...
«Anche a me facevano i “buu-buu” quando sono arrivato al Parma, così come a
Fabio Cannavaro gridavano “terrone” negli stadi del Nord. Una volta un
avversario mi ha detto in faccia “sporco negro”, eppure io sono un europeo, un
francese. In Francia il primo giocatore di colore in nazionale è stato Raoul
Diagne, i suoi venivano dalla Guyana. Venne convocato nel 1931, ma la storia
francese è fatta di colonie, quella dell’Italia no. E ora immagino che ci sia
chi si stupisce che Balotelli e gli altri due giocatori di colore (Ogbonna e
Okaka) abbiano giocato insieme nella stessa partita con la vostra nazionale
Under 21. È un fatto puramente culturale che ci sta, inaccettabile invece, è il
non considerare Balotelli italiano».
Il ragazzo infatti spesso reagisce male in campo. Ma è comprensibile?
«Quei cori non devono fargli né caldo né freddo, perché né io né lui siamo delle
“scimmie”. È quello che avrei voluto dire a Balotelli quando l’ho chiamato per
parlargli, ma come molti calciatori famosi, non risponde mai al telefono... Lui
comunque è una vittima del razzismo e sbagliano molti suoi colleghi e lo stesso
presidente Moratti a sminuire certi episodi che si sono ripetuti. Per affrontare
e superare un problema, bisogna riconoscerne l’esistenza. E ha sbagliato anche
la Federcalcio che dopo la gara con il Chievo, in cui Balotelli era stato
insultato, non doveva multarlo per la sua reazione, ma avrebbe fatto bene a
convocare il ragazzo e a dirgli pubblicamente: guarda, noi siamo dalla tua
parte, capiamo che è molto ingiusto quello che ti sta capitando e non possiamo
più accettare che queste cose accadano. Ma nessuno l’ha fatto…».
Nessuno, nonostante le continue minacce, finora ha avuto il coraggio di fermare
una partita per i cori razzisti nonostante si sentano ogni domenica in quasi
tutti gli stadi.
«Le società spesso si difendono con il dire che non è possibile chiudere la
bocca ai loro tifosi. Allora io penso che è ora di agire. La partita non va
interrotta, facciamola finire, ma se quei cori arrivano dalla Curva della
squadra di casa, il giorno dopo cominciamo con il toglierle 3 punti. Qualche
presidente comincerà a riflettere e sono sicuro che a quel punto prenderanno
provvedimenti molto rapidi».
Cosa ne pensa del suo amico Zidane che giorni fa ha detto che piuttosto che fare
la pace con Materazzi preferirebbe morire?
«Conosco bene Zidane e la sua intelligenza e mi sembra molto strano che possa
aver detto una frase del genere. Forse a qualcuno ha fatto comodo far passare
quel tipo di messaggio che certo fa notizia. Io ero in campo in quella finale
Italia-Francia del 2006 e conosco la storia e i due giocatori. Di Materazzi mi
ha sempre colpito una cosa: fuori è un’altra persona, poi appena scende in campo
si trasforma e questo non lo trovo giusto perché il calcio è un divertimento e
non una “guerra”. E questo non dobbiamo mai dimenticarlo, perché il mondo ci
guarda».
Il calcio quest’anno vola per la prima volta in Sudafrica, un’edizione storica
dei Mondiali. Che significato può avere?
«Prima di scrivere il libro ho fatto un sondaggio e l’80% delle persone
associava la parola “nero” all’Apartheid. Nero quindi nell’immaginario comune
indica un uomo emarginato, inferiore e quindi la società in cui vive ha il
timore che ciò che non è al suo livello, possa trascinare tutti ancora più in
basso. Sudafrica 2010 per prima cosa può dire al mondo che questo non è mai
stato vero, che l’Apartheid era ieri. Oggi Mandela e le generazioni a venire
devono sentirsi non più razza o nazione, ma un’unica comunità umana in cui il
primo diritto per tutti è quello alla vita».
Che cosa rappresenta oggi il calcio per Thuram?
«Tempo fa ero a Parma con i miei figli Marcus e Chefren e a un certo punto in
una piazza c’erano due ragazzi che giocavano con un pallone. Dopo qualche minuto
sono arrivati altri due e con loro c’era una ragazza che ha messo la sua borsa a
terra a fare da palo. Poi altri due ancora, ed erano di colore e di nazionalità
diverse. Alla fine, sotto i nostri occhi hanno giocato per un’ora una partita 6
contro 5. Ecco, per me rimarrà sempre l’immagine vera di questo sport. Un
linguaggio universale che esprime la voglia di condividere, da quando sei
bambino fino al giorno in cui avrai ancora voglia di giocare insieme agli altri.
E in questo, il calcio è davvero lo specchio della vita».
Massimiliano Castellani