Martedì 20 Giugno 2017

 
Giornata Mondiale del Rifugiato: le rotte della disperazione  
 
Roma - Un fenomeno globale, segno di un’epoca. Nel mondo, oggi, una persona su 122 è un rifugiato. L’immigrazione assume contorni diversi da continente a continente, anche se alla sua base resta sempre una sola ragione: la fuga da guerre, violenze, sfruttamento, povertà e fame, e la ricerca di una vita migliore. Forse mai come oggi nella storia moderna il mondo deve fare i conti con milioni di disperati che chiedono pace, giustizia e uno sviluppo più equo. Per non dimenticare che dietro ognuno di loro c’è una storia da raccontare e un’esigenza che non può essere ignorata oggi, martedì 20 giugno, si celebra la giornata mondiale del rifugiato promossa dalle Nazioni Unite e che vedrà eventi e manifestazioni in tutto il mondo.

Nonostante dati e ricerche oggi a disposizione, è ancora molto complesso tracciare i confini precisi dell’immigrazione. Tuttavia, si possono individuare almeno quattro grandi aree che oggi sono particolarmente segnate da questo fenomeno. C’è in primis l’Europa, soprattutto il Mediterraneo. Nella sola giornata di domenica sono state soccorse 1700 persone al largo della Sicilia, fra Catania e Palermo. Secondo le Nazioni Unite, nel 2017 oltre 1770 persone sono già morte o risultate disperse nel tentativo di attraversare il Mediterraneo dalle coste africane. Dall’inizio dell’anno a giugno un totale di 71.418 migranti e rifugiati sono giunti in Europa via mare. Dopo l’accordo tra Unione europea e Turchia, la situazione sulla rotta balcanica sembra essersi normalizzata e il numero degli arrivi è drasticamente calato. Ma il grosso problema, in questo caso, è politico: Bruxelles e gli stati dell’Unione non riescono a trovare un accordo su un funzionale sistema di ricollocamenti. La questione ha provocato di recente uno scontro durissimo, con la commissione che ha varato sanzioni contro Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia.

La seconda grande area è l’Africa. Qui la situazione è ancor più tragica ed è spesso ignorata dalla stampa internazionale. Il caso più recente, che ha riacceso i riflettori su questa drammatica realtà, è quello di sette africani ritrovati morti soffocati in un camion: erano stati abbandonati dai trafficanti di esseri umani in pieno deserto, a una cinquantina di chilometri a est di Tripoli. Un episodio analogo era avvenuto a febbraio a Khoms, con la morte di 13 migranti per abbandono e soffocamento. La loro storia, purtroppo, è quella di molti altri in fuga dal terrorismo che affligge la Nigeria e il Camerun, dove imperversano i jihadisti di Boko Haram. Decidono quindi di attraversare il deserto del Niger e del Mali con mezzi di fortuna, pagando trafficanti senza scrupoli. Il copione è sempre lo stesso: il mezzo si rompe, i trafficanti si fanno venire a prendere e scappano con una scusa, e i migranti proseguono a piedi. Ma la loro sorte, a quel punto, è già segnata.

A oriente, al confine tra Sudan e Sud Sudan c’è un altro tragico caso. Dallo scorso febbraio oltre trentamila persone hanno abbandonato le loro case a causa degli scontri tra esercito e gruppi di ribelli. Ora c’è il rischio di una catastrofe umanitaria con casi di colera e malnutrizione in aumento.

La terza grande area è l’America centrale. Il confine fra Messico e Stati Uniti, di cui si parla di nuovo molto dopo che il presidente statunitense, Donald Trump, ha avviato la pianificazione di un muro per limitare l’immigrazione clandestina, non è un tema nuovo: da decenni è un argomento sensibile e che riguarda centinaia di migliaia di persone che ci vivono intorno, e altrettante centinaia di migliaia di persone che ogni anno cercano di attraversarlo illegalmente. Quello fra Messico e Stati Uniti è il confine più trafficato al mondo, con circa 350 milioni di attraversamenti legali ogni anno, e uno di quelli più sorvegliati. Dal 2005 a oggi gli Stati Uniti hanno speso 132 miliardi di dollari per rafforzarne la sicurezza, aumentandola progressivamente ogni anno. E la cifra è destinata a salire.

Molto più poliedrica e contraddittoria è invece l’ultima, quarta area: il sudest asiatico. Qui, accanto ai classici flussi migratori interni, ci sono casi di aperta violazione dei diritti umani. I migranti e rifugiati asiatici, appartenenti il più delle volte a minoranze etniche e religiose, provengono principalmente da Afghanistan e Myanmar. Nella grande sub-regione del Mekong il confine che divide Myanmar dalla Thailandia (a nord-ovest) e la frontiera tra quest’ultimo paese e la Cambogia (a sud-est) sono i più varcati della regione. Nel biennio 2014-2015, l’Unhcr ha registrato circa 95.000 sbarchi di navi-peschereccio alla deriva nel mare delle Andamane e nel golfo del Bengala, avendo Thailandia e Malesia come principali siti di approdo. La Thailandia rimpatria deliberatamente ogni anno centinaia di rifugiati e richiedenti asilo appartenenti a diversi gruppi etnici: rohingya, lao hmong, khmer krom e chin. La Malesia, invece, offre ospitalità a quasi 140.000 rifugiati provenienti dal Myanmar (di cui 75.000 rohingya), su un totale di 154.000 stranieri registrati nel paese, privi loro malgrado dei documenti anagrafici e del diritto di cittadinanza. Come riportato da varie organizzazioni non governative, i membri della minoranza kaichin sono vittime di angherie e intimidazioni da parte delle forze di sicurezza locali, sistematicamente minacciati con l’arresto nel tentativo di estorcere loro del denaro. Stesso discorso vale per i rohingya, minoranza presa di mira sia in patria che in Malesia, dove l’accesso alle cure di primo soccorso sono possibili solo grazie all’ottenimento di un documento di identità da parte dell’agenzia Onu per i rifugiati di Kuala Lumpur. (Osservatore Romano)