Via Padova, la città in cui speriamo
I fatti avvenuti nei giorni
scorsi meritano
un'approfondita riflessione
DAL SITO DELLA CHIESA DI MILANO DEL 16.02.2010
Quanto accaduto nei giorni scorsi in via Padova è un episodio
grave e bisognoso di approfondimento. L’aggressione e la morte di un giovane, il
conflitto etnico tra bande rivali, le reazioni violente che ne sono seguite,
denunciano una situazione da leggere nella sua complessità con lucidità di
giudizio e senza fermarsi al cono d’ombra dei fatti delittuosi. L’uccisione si
colloca in uno scenario di diffuso disagio sociale che, complice l’indifferenza
di chi avrebbe potuto intervenire prima ma non lo ha fatto, perdura da tempo ed
è destinato a rimanere tale fintantoché non si deciderà insieme di voltare
pagina e ristabilire le condizioni per una normale e costruttiva convivenza
civile.
La prima parola è la ferma condanna della violenza. Non accettiamo di assistere
inermi a questa spirale di aggressività: morire in questo modo è, oltre che
drammatico, assurdo. Nemmeno vogliamo addomesticare il cuore e i sensi
all’abitudine per la violenza posta quotidianamente sotto i nostri occhi;
continuiamo a operare per l’edificazione di una città aperta e umana, capace di
coniugare sicurezza e integrazione.
Abbiamo ascoltato in questi giorni interventi istituzionali limpidi, capaci di
richiamare con severità ed equilibrio ai valori che fondano la convivenza, ma
anche al consueto e triste gioco politico di parte, nel quale i problemi reali
vengono puntualmente sacrificati sull’altare della ricerca del consenso
elettorale. I media con alcuni servizi hanno cercato di entrare con discrezione
ed intelligenza nella situazione concreta del quartiere e dei suoi abitanti,
mentre con altri hanno offerto spettacolarizzazioni non rispettose della verità
dei fatti e delle persone. Sembra per questo necessario mantenere quella pacata
ragionevolezza che, consapevole della gravità dell’accaduto, non desiste dal
ricercare la giusta misura delle cose e non si lascia prendere dall’emotività,
dai giudizi affrettati e dall’illusione che esistano soluzioni drastiche e
immediate per risolvere i conflitti.
Dieci anni fa proprio in via Padova l’uccisione di un gioielliere e di un
tabaccaio coronavano nel sangue una tristissima stagione di violenza e degrado
per il quartiere e per l’intera città. Allora criminali e vittime erano
italiani: in qualche modo i nuovi arrivati si sono sostituiti ai delinquenti
locali.
A ben vedere il problema principale non riguarda, quindi, solo la criminalità
organizzata, ieri, o l’immigrazione non governata, oggi, ma anche il degrado del
tessuto civile del quartiere. Quando un territorio, un lembo di città non è
governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria,
della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le
patologie più gravi del disagio sociale.
Per quanto riguarda le sfide dell’immigrazione, da tempo la Chiesa Ambrosiana
cerca di promuovere un’ articolata riflessione e indicare alcune linee
costruttive. Risuonano oggi come molto opportune le parole pronunciate
dall’Arcivescovo nel Discorso di S. Ambrogio del 2008: «Occorre, con una visione
complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o
meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma
innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che
esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che
devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e
dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti,
ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le
loro forze e con l’originalità della propria identità».
Da parte dei milanesi occorre riconoscere in questi anni un preoccupante calo
della tensione morale e civile e la conseguente fatica a trasmettere la solidità
di un ethos pubblico condiviso e normativo. Non è forse ancora più necessario
oggi tornare a conoscere, rispettare, apprezzare le regole, i valori, il senso
delle istituzioni e delle tradizioni civili? Su quale base comune costruire
altrimenti una convivenza coi nuovi arrivati?
Se cresce ormai positivamente la consapevolezza che la via da percorrere è
quella dell’integrazione, resta ancora equivoco il senso da attribuire a questa
espressione. Per alcuni coincide sostanzialmente con l’“adeguamento integrale”
di altri ai nostri modi: di parlare, di vivere, di agire, di consumare… In buona
sostanza con l’omologazione. In realtà un’autentica integrazione suppone
anzitutto conoscenza, dialogo, ascolto a partire dalla riscoperta delle proprie
radici, così che le diverse componenti dell’unico corpo sociale possano
contribuire, ciascuna con la propria originalità, al bene comune e al volto di
una città migliore.
L’albero buono si riconosce dai frutti buoni, ma di fronte a frutti cattivi
occorre scendere in profondità e risanare le radici: ripartire dalla famiglia.
Essa, come sottolinea Benedetto XVI, «è un fondamento indispensabile per la
società e per i popoli, e anche un bene insostituibile per i figli. È nel
focolare domestico che s'impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la
salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia
e il rispetto» (Discorso al VI Incontro Mondiale delle Famiglie di Città del
Messico). A tutte le famiglie, italiane o immigrate, occorre assicurare quanto è
necessario a una vita dignitosa, per sé e i propri cari, e così assolvere al
proprio compito sociale: casa, scuola, lavoro, assistenza per bambini, anziani,
disabili e malati. Non sarebbe tempo di prendere in seria considerazione
l’urgenza dei ricongiungimenti familiari?
In particolare le prime vittime di una politica paralizzata dalla ricerca del
consenso e poco audace nel progettare, realizzare, governare la “metropoli” del
presente e del futuro sono le giovani generazioni. C’è forse vera differenza fra
il disagio violento, tribale e rancoroso delle gang etniche e quello più
narcisistico, autodistruttivo e spietato dei giovani “bene”? La sfida educativa
nei confronti dei giovani, ancora più acuta nel contesto della seconda
generazione di immigrati, è davvero centrale per le famiglie e per le altre
agenzie educative. Giustamente la riflessione dei sacerdoti del decanato di
Turro, in cui è situata via Padova, sottolinea la preziosità dei luoghi di
educazione giovanile come le scuole, gli oratori e le comunità cristiane. Realtà
già presenti, ma bisognose di ulteriore sostegno. Perché non promuovere per
davvero un “esercito” di educatori piuttosto che di militari?
Partiamo dal riconoscimento e dal sostegno dei molti segni di speranza e delle
diverse realtà vive del quartiere: i cittadini che scelgono positivamente di
abitarvi, le comunità cristiane con le loro attività, le forze politiche,
sociali e culturali che mantengono un legame col territorio, i commercianti, le
scuole, le associazioni di volontariato.
Segno di speranza è anche la Messa celebrata per il Decanato domenica 7 febbraio
dal Cardinale Tettamanzi insieme a più di 1500 persone. Chi vi ha partecipato ha
potuto sperimentare un momento di autentico entusiasmo popolare, il ritrovato
orgoglio di abitare il quartiere, la bellezza della fede e dei legami di
fraternità che essa genera. Insomma, non un gesto isolato, ma la rivelazione di
quel volto autentico della città per cui vale la pena lottare, amare e vivere,
al quale si richiamava quel giorno l’Arcivescovo concludendo la sua omelia: «Di
fronte a una società che ne è povera, la comunità cristiana si presenti invece
come il luogo nel quale la speranza continuamente sorge e viene offerta, a tutti
e a ciascuno, attraverso la testimonianza di un amore misericordioso».