Dall’evento internazionale svoltosi in Baviera emergono la voglia d’incontro e l’importanza del ruolo svolto dalla Chiesa
 Conoscere i nomadi al di là dei pregiudizi

DALL' INVIATO DI AVVENIRE A FRISINGA (GERMANIA)
 LUCIA BELLASPIGA

F uggirono dall’India mille anni fa durante gli scontri tra arabi e mongoli e attraver­sarono il mondo, dando origine alla tavo­lozza di etnie che oggi rappresentano. Inizia co­sì l’odissea degli zingari, l’esodo più massiccio e duraturo nella storia umana, e da allora non si sono mai fermati.
La Chiesa si interroga. Affascinanti nelle ver­sioni « romanticizzate » ( violini tzigani, belle fiammiferaie, carovane di giocolieri), in realtà rappresentano ovunque la minoranza più svan­taggiata e più sconosciuta: degli zingari parlia­mo quando la cronaca nera rileva i loro com­portamenti illegali, ma molte sorprese ci a­spetterebbero se solo scoprissimo quante per­sone (anche famose) sono rom o sinti «nasco­sti » (calciatori, attori, avvocati, medici...). A lo­ro il Pontificio Consiglio della pastorale per i mi­granti e gli itineranti ha dedicato il VI Congres­so mondiale della pastorale per gli zingari, con­cluso ieri a Frisinga: «La Chiesa non può resta­re indifferente. Che cosa può fare per rafforza­re la speranza e dare loro un futuro degno? Que­sto congresso cercherà affannosamente le ri­sposte », aveva annunciato in apertura l’arcive­scovo di Friburgo, Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale tedesca. Ad ascol­tarlo alcuni giovani zingari, e 150 relatori giun­ti da tutto il mondo: sacerdoti, suore, missio- nari, laici impegnati nella promozione umana e nella evangelizzazione dei gitani.
Indesiderati. Sono 36 milioni, sparsi in Euro­pa, Americhe, Asia. Si stima che in Europa sia­no 12 milioni, in Italia non più di 200mila, una percentuale molto bassa rispetto ad altri Paesi e questo non li aiuta: nella dura legge dei nu­meri – nota l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio – più si è mi­noranza e meno si conta. «La maggior parte de­gli zingari – ricorda – sono cittadini a tutti gli ef­fetti, tuttavia appartengono al gruppo sociale con meno opportunità»: difficile pretendere che siano educati, onesti, ligi alle regole, quando in realtà crescono in discariche e con la costante percezione di essere fin da piccoli «il gruppo meno desiderato», rifiutati nelle case, sul lavo­ro, nelle classi scolastiche. In queste condizio­ni i giovani non hanno scelta, devianza e ille­galità restano la sola via immaginata.
Il miraggio scuola. Si pensa che «agli zingari piaccia vivere così». Studi del Forum of Euro­pean Rom Young People e del Consiglio d’Eu­ropa, però, attestano come gli ideali dei loro giovani non siano diversi da quelli dei coetanei «gagè» (i non zingari): un buon mestiere, un’i­struzione, l’integrazione nella società, magari un impegno in attività politiche e amministra­tive. Soprattutto sono scuola e lavoro a fare la differenza: se mancano questi due ingranaggi il sistema salta. Ma in Europa secondo l’Osce nemmeno 2 bambini su 10 completano la scuo­la primaria: «Per i nostri piccoli, che vivono quo­tidianamente tra sgomberi forzati e campi no­madi distanti dagli istituti, la frequenza diven­ta insostenibile», dice Eva Rizzin, zingara sinta, laureata. A tali oggettive difficoltà, poi, si unisce l’opposizione di molti clan, convinti che man­dare i figli alla scuola dei «gagé» rappresenti u­na corruzione della loro cultura (un po’ ciò che avveniva nell’Italia rurale il secolo scorso): «Og­gi in Spagna e altrove i nostri bambini hanno la possibilità di istruirsi – ammette Belén Maya, suora rom – ma con tali modelli di riferimento in famiglia come possono essere motivati? Dob­biamo aiutarli a scoprire che la responsabilità non è negazione della libertà tanto amata da noi zingari, ma ci fa uomini e donne».
Contraddizioni. Il popolo zingaro ha un’inna­ta religiosità. Per questo accetta di buon grado la vicinanza dei sacerdoti che portano il Vange­lo tra di loro. Ma – dice don Federico Schiavon (direttore dell’Ufficio nazionale per la pastora­le dei rom e sinti in Italia) – l’evangelizzazione non può essere limitata ad alcuni «operatori», compete all’intera comunità di fedeli. In Italia si fa di tutta l’erba un fascio e «tutti i rom, an­che se cittadini italiani da generazioni, sono vi­sti indistintamente come «coloro che non vo­gliamo ». Questo crea nei giovani un senso di «accerchiamento», di scontro di civiltà. Come potranno sensatamente accogliere la parola del Vangelo presentata da una comunità che, nel suo insieme, li rifiuta e disprezza? Evangelizza­zione e promozione umana non possono an­dare disgiunti». La religiosità «chiassosa», alle­gra, dei gitani fa sì che qualsiasi fede abbracci­no sia vissuta a modo loro. «A loro basta solo il battesimo, poi saltano al funerale – spiega don Mario Riboldi, incaricato dell’arcidiocesi di Mi­lano della pastorale per gli zingari –. Quanto al matrimonio, il rito prevede la «fuga»: quando nel campo si accorgono che mancano due ragazzi capiscono che sono andati a «sposarsi». Torna­no il giorno dopo, vengono puniti pro forma e il matrimonio è fatto. È così da secoli». Eppure molti desiderano un momento di preghiera du­rante la festa e la benedizione del prete: «Se­gnali importanti, da non lasciar cadere», rac­comanda padre Denis Membrey, già direttore nazionale in Francia. Il problema reale, però, è che tra gli zingari ci si sposa pressoché bambi­ni e si diventa troppo presto «adulti», l’eccesso opposto di quanto avviene tra i nostri giovani.
I mass media. «Di furti e illegalità, che esisto­no, la stampa dice tutto. Non parla invece del­la «faccia buona» degli zingari – sottolinea l’ar­civescovo Marchetto –. In questi giovani venu­ti al congresso l’abbiamo vista: studiano, lavo­rano, ma devono nascondere la loro identità. Conosco di persona un neurochirurgo affer­mato che è rom. Se si sapesse...».
La comunità. «Rom e sinti oltre che cattolici so­no anche ortodossi, evangelici, musulmani – ri­corda don Schiavon – ma gli operatori della pa­storale sono presenti ovunque: l’ecumenismo non è un optional ma una via di non ritorno che vive di relazioni fraterne e pane condiviso». Non mancano poi le vocazioni tra i gitani stes­si: almeno un centinaio ha già scelto un cam­mino di impegno ministeriale o di vita consa­crata.
«I due muri contrapposti, razzismo da parte no­stra e diffidenza dalla loro, cadono di fronte al Vangelo vissuto – conclude Marchetto –. Ogni altra via ha finora fallito, solo la Chiesa, che dà e non chiede, è diventata ponte».
Si è chiuso ieri a Frisinga, in Germania, il VI Congresso mondiale della pastorale per gli zingari. Parla l’arcivescovo Marchetto: il Vangelo vissuto fa cadere i muri contrapposti del razzismo e della diffidenza